Il Rapporto 2017 sull’industria dei quotidiani in Italia

E’ disponibile a questo link l’edizione 2017 del Rapporto sull’industria dei quotidiani in Italia, la pubblicazione realizzata da Asig e dall’Osservatorio Tecnico “Carlo Lombardi” per i quotidiani e le agenzie di informazione. Ne riportiamo a seguire la premessa.

 

Negli ultimi mesi del 2016 e nella prima parte del 2017 l’industria italiana dei quotidiani è stata investita da una fase di grandi cambiamenti, che hanno riguardato anche e soprattutto le realtà maggiori del settore. Nel mese di giugno 2017 si è praticamente completata la fusione tra i gruppi editoriali ai quali facevano capo i quotidiani Repubblica e La Stampa: un processo complesso, avviato più di un anno fa (ne avevamo accennato nell’introduzione al Rapporto 2016), che è dovuto passare anche per la cessione di alcune testate per evitare che il nuovo soggetto superasse i limiti di concentrazione editoriale previsti dalla legge. Il risultato di questo processo è un nuovo soggetto, GEDI, che riunisce tre storici quotidiani nazionali – La Repubblica, la Stampa, Il Secolo XIX – 13 testate locali, il settimanale L’Espresso ed altri periodici, senza dimenticare la concessionaria di pubblicità, le televisioni, le radio, le attività digitali e – last but not least – un importante network di stabilimenti di stampa. Un “campione nazionale” con un fatturato nell’ordine dei 700 milioni di euro e con le dimensioni adeguate per confrontarsi con gli altri giganti internazionali del settore.

A circa un anno fa, per l’esattezza al luglio 2016, risale la seconda grande operazione editoriale dell’anno, ovvero la scalata di Urbano Cairo al gruppo RCS. Il risultato di questa operazione è prima di tutto quello di restituire ad un editore puro un gruppo editoriale che col passare degli anni si dice fosse diventato una sorta di club di imprenditori, ciascuno con interessi primari in altri settori e il cui interesse nel business editoriale è spesso sembrato secondario rispetto all’interesse politico di avere un piede dentro la stanza dei bottoni di uno dei più importanti e influenti organi di informazione del nostro Paese, il Corriere della Sera. Anche in questo caso, l’operazione di Cairo ci consegna un gruppo editoriale di grandi dimensioni, attivo nell’area dei quotidiani e dei periodici a larga diffusione, nella televisione, nella pubblicità, nell’organizzazione di eventi sportivi. Un gruppo con una massa critica adeguata a sostenere gli investimenti che saranno richiesti per competere con gli altri colossi del settore, in Italia ed all’estero.

E se non bastassero le vicende dei due maggiori gruppi editoriali del nostro Paese, ricordiamo il gruppo 24 Ore che ha attraversato una grave crisi e  da pochi mesi ha rinnovato la squadra di management e la direzione giornalistica, varando inoltre un importante aumento di capitale. O ancora la recentissima decisione del gruppo editoriale Caltagirone di lasciare la Borsa Italiana, dove il titolo era quotato sin da quando, all’inizio del 2000, fu costituita la società che raggruppava le testate acquisite dal gruppo: Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino. C’è da augurarsi che l’abbandono della Borsa non preluda ad un disimpegno dalle attività editoriali da parte del gruppo.

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Alla radice di tutti questi cambiamenti, e degli altri che – ne siamo certi – seguiranno nei prossimi mesi ed anni, vi è la profonda, radicale trasformazione del settore editoriale, in ogni sua componente: dalla elaborazione delle notizie alla veicolazione dei contenuti, dall’acquisizione della pubblicità alla vendita dei contenuti ai lettori ed agli abbonati, sino alla questione centrale e decisiva, ovvero il rapporto con gli Over The Top, i giganti dell’economia digitale che condizionano e regolano l’ecosistema sociale ed economico che ruota attorno a Internet.

Per avere un’idea di quanto radicale sia il cambiamento in corso, basta scorrere anche distrattamente i capitoli del Rapporto 2017 con tutti i dati aggiornati sull’andamento del settore. Basti citare solo qualche numero sparso per avere un’idea delle dimensioni della trasformazione in corso: negli ultimi dieci anni la diffusione complessiva dei quotidiani si è più che dimezzata, passando da 5,4 milioni a 2,6 milioni di copie giornaliere  al netto della free press, che dieci anni fa valeva diverse centinaia di migliaia di copie al giorno ed oggi è pressoché irrilevante. Nel solo 2016 la riduzione delle copie diffuse ha superato il 10%, e i primi mesi del 2017 non sembrano discostarsi da questo trend: nel mese di aprile, ultimo disponibile al momento della chiusura di questo rapporto, la diffusione è risultata inferiore del 3% rispetto a dicembre 2016 e dell’11% rispetto all’aprile 2016.

Ancora peggiore, se possibile, la performance del mercato pubblicitario. L’ultimo decennio è stato attraversato da una crisi economica gravissima, la peggiore dal secondo dopoguerra, che in Italia ha visto un calo complessivo degli investimenti pubblicitari del 27%, da 8,8 a 6,4 miliardi di euro, peraltro con un lieve, promettente recupero (+1,7%) nel 2016. In questo contesto già non brillante, la performance dei prodotti editoriali è stata particolarmente negativa: nel decennio considerato, il fatturato pubblicitario di quotidiani e periodici si è ridotto di oltre il 60%, ad un ritmo annuo di poco inferiore al 10%.

Non che all’estero le cose vadano tanto meglio. Secondo i dati recentemente pubblicati dal Pew Research Center, la diffusione dei quotidiani negli USA – cartacea e digitale – è stata pari nel 2016 a 35 milioni di copie giornaliere, in calo dell’8% rispetto al 2015: il valore più basso da quando – nel 1940 – l’Associazione degli Editori USA cominciò a raccogliere questi dati. E se i ricavi diffusionali sono rimasti stabili intorno agli 11 miliardi di dollari, grazie agli aumenti di prezzo delle copie singole e degli abbonamenti, il fatturato pubblicitario è diminuito del 10% in un solo anno, da 20,3 a 18,3 miliardi di dollari. Nel 2005, l’anno dello zenit dell’industria editoriale USA, i quotidiani fatturarono poco meno di 50 miliardi di pubblicità.

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Che fare, allora? Una possibile risposta sarebbe quella di trasferirsi in India dove, in netta controtendenza con quasi tutto il mondo, negli ultimi dieci anni la vendita media giornaliera di quotidiani è aumentata da 39 a 62 milioni di copie. Ma, scherzi a parte, non esistono a oggi risposte definitive su come arginare la crisi di un settore industriale che sino a dieci anni fa appariva in ottima salute. Il futuro va sempre più verso il digitale, questo appare chiaro, ma il come, il quando e soprattutto il quanto si potrà guadagnare con questo passaggio appare ancora difficile da capire. Possiamo provare a mettere alcuni punti fermi:

La carta è destinata ad un consumo più elitario e di nicchia, e sarà sempre più rivolta a chi chiede qualità, approfondimento, articoli ed inchieste lunghi e ricchi di immagini e di dati;

La pubblicità è destinata a ridursi ulteriormente, sia sulla piattaforma cartacea che su quella digitale, dove a breve gran parte dei browser, sia sui computer fissi che sugli smartphone, saranno dotati di dispositivi di ad-blocking, che permetteranno di fruire dei contenuti senza il disturbo di annunci pubblicitari;

Le iniziative più convincenti sul versante digitale sono, al momento, quelle che puntano a fidelizzare il nucleo dei lettori non occasionali con abbonamenti ed iniziative ad essi riservate. Nel primo trimestre 2017 il numero di abbonati digitali del New York Times è cresciuto di 308.000 unità, il maggior incremento trimestrale di sempre, portando il totale degli abbonati a poco meno di due milioni, con l’obiettivo dichiarato di superare i 10 milioni entro il 2020;

Per lo stesso motivo, le iniziative che hanno intrapreso molti Over The Top per ospitare all’interno del proprio ecosistema dei prodotti degli editori tradizionali – pensiamo alle pagine AMP di Google o agli Instant Articles di Facebook – potrebbero a lungo andare impoverire ulteriormente l’industria editoriale. Dopo una prima fase di grande entusiasmo, i grandi gruppi editoriali stanno cominciando a ripensare le proprie strategie: è di qualche settimana fa la notizia che Axel Springer abbandonerà progressivamente il server di pubblicità di Google a favore di un altro sistema sviluppato da AppNexus;

A meno di incisivi interventi delle autorità nazionali o sovranazionali di regolazione del mercato, pochi operatori come Google, Facebook, e in misura minore Apple e Microsoft sono già oggi, e sono destinati a diventarlo in misura sempre maggiore, i regolatori della vita digitale di ciascuno di noi: cosa leggiamo, che notizie riceviamo, cosa acquistiamo, con chi ci relazioniamo sul web. 

E’ quest’ultimo il punto più importante, che apre scenari spaventosi che nemmeno scrittori come George Orwell o Philip Dick avrebbero potuto immaginare. La multa da 2,4 miliardi di euro recentemente comminata dall’Unione Europea a Google costituisce un primo riconoscimento, da parte delle Autorità pubbliche, del fatto che Internet, nato come spazio di libertà e di comunicazione senza ostacoli e censure, si è gradualmente trasformato in una rete autostradale a pagamento dove la riscossione del pedaggio, che ce ne accorgiamo o meno, è in mano ad un paio di giganti. Ogni volta che accendiamo il computer o lo smartphone, qualunque sia l’attività che svolgiamo, lavorare o chattare con gli amici, acquistare un libro o prenotare un volo, i nostri dati personali, i nostri gusti, i nostri contatti, in breve tutti gli elementi che definiscono la nostra identità digitale, vengono depositati in qualche server in un punto imprecisato del mondo, a disposizione di aziende dalle dimensioni ciclopiche, con un fatturato superiore al PIL di molte nazioni, che oggi li utilizzano per fornirci suggerimenti su cosa comprare, cosa leggere, o li vendono ad inserzionisti interessati al nostro profilo di consumatori. Ma un domani…chi può dire come, da chi e con quali finalità saranno usati i nostri dati? Profilazione razziale o sessuale, per orientamento politico o religioso: la gamma delle possibilità per chi sa utilizzare i big data è potenzialmente infinita.

Ma anche a non voler scivolare in ipotesi apocalittiche, pensiamo soltanto al dibattito sulle fake news e sulla capacità dei social network di influenzare l’opinione pubblica amplificando notizie false o inesatte. Nell’ultimo anno è apparso evidente l’utilizzo – soprattutto di Facebook – per vere e proprie “operazioni di disinformazione” durante le campagne per le elezioni del Presidente negli Stati Uniti e in Francia, e durante il referendum sulla Brexit in Gran Bretagna, con pesanti sospetti di intromissioni di hacker al servizio di altre Nazioni per indirizzare l’opinione pubblica e l’esito del voto. Ciò è diventato possibile nel momento in cui i tradizionali strumenti di informazione, che del controllo e della verifica delle fonti hanno fatto la loro ragione prima di esistenza, sono stati trascurati e bypassati a favore di canali informativi dove l’“editore” non è interessato alla distinzione tra il vero e il falso, e dove tra una notizia dell’ANSA e la bufala per cui i vaccini causano l’autismo vince chi ha più like, non chi racconta la verità magari dopo un lungo (e costoso) lavoro di ricerca e verifica delle fonti.

Il tramonto dei mezzi di informazione come li abbiamo conosciuti sino ad oggi fa parte della fisiologia del progresso della tecnica, così come la scomparsa delle carrozze a cavalli e dei rullini fotografici. Ma se l’opinione pubblica dovesse formarsi non più su media realizzati professionalmente con una attenta verifica delle fonti, ma dentro una marmellata indistinta dove le notizie non emergono per la qualità del loro contenuto ma per il traffico che generano, allora avremmo un grosso problema di tenuta del sistema democratico, di cui i media – e il controllo che essi esercitano sul potere politico – sono una delle componenti essenziali. Ad un recente convegno Richard Thomson, amministratore delegato del gruppo editoriale News Corp, ha dichiarato: 

“Il duopolio digitale [di Google e Facebook] ha riscritto le regole in un modo da tagliare fuori gran parte del giornalismo e della verifica dell’accuratezza delle notizie. La mercificazione dei contenuti operata da Google, dove l’autorevolezza è secondaria rispetto al profitto, e i flussi di Facebook dove è difficile distinguere contenuti giornalistici e fake news, hanno creato un ecosistema  disfunzionale e socialmente distruttivo. Entrambe le aziende avrebbero potuto fare molto di più per sottolineare che esiste una gerarchia di contenuti, ma, invece, hanno prosperato spacciando una filosofia che non vuole distinguere tra il falso e il vero perché entrambi portano denaro”

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Ritornando al recinto italiano, dobbiamo chiederci quali siano le prospettive di un settore che ha visto negli ultimi anni un così rapido declino degli indicatori economici e quali possano essere dei possibili correttivi. 

Una prima realtà ineludibile è che i quotidiani e le imprese editoriali in generale dovranno abituarsi ancor più di quanto hanno fatto sino ad oggi a nuotare nelle acque alte, ed agitate, di internet, perché è lì che vanno, in numero sempre maggiore, i propri potenziali lettori. Oggi il 62% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni è online nel giorno medio, ma solo il 30% di essi legge almeno un quotidiano.

E’ altrettanto certo, tuttavia, che le imprese non potranno abbandonare dall’oggi al domani la carta, sia perché – banalmente – ancora oggi l’80% abbondante del fatturato delle aziende editoriali transita per i coni delle rotative, sia perché una buona fetta della popolazione italiana  – la più anziana, spesso con un reddito disponibile maggiore – è abituata al consumo della carta stampata. La percentuale degli over 55 che è online nel giorno medio è in rapida crescita, ma è ancora inferiore alla percentuale degli ultracinquantacinquenni che leggono il quotidiano tutti i giorni.

I nodi strutturali che da decenni vengono segnalati in tutte le pubblicazioni del settore, compresa la nostra, rimangono sempre gli stessi: il basso tasso di lettura, il sistema distributivo poco elastico, un mercato pubblicitario squilibrato a favore della tv e adesso anche a favore degli Over The Top che per di più tendono ad eludere il pagamento delle tasse. 

C’è a ben guardare più di un segnale positivo arrivato negli ultimi mesi, come il credito di imposta per le aziende che effettuano investimenti pubblicitari sui quotidiani e sui periodici per un importo maggiore rispetto a quelli effettuati nel passato, o la liberalizzazione della rete di vendita, o il rifinanziamento dei prepensionamenti dei giornalisti. Altre decisioni politiche, invece, rischiano di aggiungere ulteriori criticità ad un settore già in forte difficoltà: un esempio è la messa a bando dei servizi informativi tradizionalmente forniti alle amministrazioni pubbliche dalle agenzie tramite specifiche convenzioni. Trattare l’informazione come un prodotto o servizio qualsiasi, considerare le notizie d’agenzia come uno stock di computer o di risme di carta, rischia di impoverire il panorama informativo italiano oltre a mettere a rischio la sopravvivenza di veri e propri campioni nazionali del settore, primo tra tutti l’ANSA, quarta agenzia di stampa al mondo, custode di un patrimonio di autorevolezza e di credibilità cementato da decenni di attività.

Tra le criticità non possiamo non citare anche le recenti norme sugli ammortizzatori sociali nel settore editoriale, che rischiano di neutralizzare per i prossimi anni strumenti come Cassa Integrazione, solidarietà, prepensionamenti con i quali si è riusciti sino ad oggi a governare le crisi aziendali con un costo sociale molto limitato. Rimane infine, tra i “buchi neri” irrisolti, il tema degli abbonamenti: oggi in Italia, Paese del G7, in molte aree del Paese il servizio postale consegna la corrispondenza a giorni alterni. Una pietra tombale per quei pochi, eroici lettori che si ostinano ad abbonarsi ai quotidiani.

Ma qualunque aiuto, incentivo, defiscalizzazione che il Governo possa mettere in campo non potrà eludere la verità di fondo: ci dovremo abituare a numeri sempre più piccoli, e sarà necessario ritarare in questo senso tutto il settore: dalle redazioni al network produttivo, che già negli ultimi anni ha visto una progressiva riduzione sia nel numero di stabilimenti che nel numero di linee di produzione installate. La sopravvivenza degli impianti di stampa sarà dettata dai volumi produttivi che riusciranno a sostenere: sia di notte, stampando quotidiani, sia di giorno, stampando ciò che offre il mercato, come periodici o volantoni della grande distribuzione. È facile quindi prevedere che domani, ancor più che in passato, l’attività di stampa tenderà ad essere sempre più separata da quella più propriamente editoriale e dovrà trovare al di fuori dal tradizionale ambito il foraggio per la propria sopravvivenza. In questo scenario, a oggi non vi è purtroppo traccia di alleanze strategiche tra gli imprenditori del settore, a parte qualche timida apertura sulla stampa commerciale.

In questa prospettiva, la confluenza del contratto di lavoro poligrafico all’interno di una più ampia filiera, che comprende anche l’attività grafica e cartaria, fa parte del futuro auspicabile per il settore, anche in considerazione dell’ormai esiguo numero degli attivi, di poco superiore alle 4.300 unità. Si tratta peraltro di un obiettivo condiviso dalle parti sociali, Fieg, Asig e organizzazioni sindacali, che nel momento in cui si chiude questa edizione del Rapporto sono ancora impegnate nel rinnovo del contratto di lavoro, la cui parte economica è scaduta sette anni or sono. Già adesso tuttavia, a seguito di un accordo-stralcio siglato dalle Parti nel maggio scorso, le aziende che intendono assumere poligrafici, o convertire in poligrafico l’inquadramento di lavoratori già assunti, possono farlo con condizioni normative vantaggiose e, soprattutto, con una aliquota complessiva per il Fondo Casella del 4,20% in luogo dell’attuale 25,55%. Una mossa concreta contro chi in questi anni ha fatto dumping sul mercato della stampa dei quotidiani, ma anche un segnale di speranza che ci auguriamo il settore sappia cogliere.

Il Consiglio Direttivo

Luglio 2017